Ciuffo di capelli da aggiustare dopo ogni voltata di pagina, eleganza impeccabile nel vestiario e un repertorio infinito di mosse da provetto ballerino di cha cha cha. Leonard Bernstein (1918 – 1990) è stato una delle personalità più eccentriche e interessanti di tutto il secolo breve e tutt’oggi continua ad affascinare musicisti esperti e amatori. Qual è il segreto della sua grandezza?
Louis, questo il suo nome alla nascita, studia il pianoforte dall’età di dieci anni. A ventuno si divide tra Harvard e Philadelphia per studiare composizione e direzione d’orchestra e a venticinque è già sul podio della Carnegie Hall dove dirige per la prima volta la Filarmonica di New York. Il rapporto con questa orchestra darà origine a una simbiosi che culminerà nel 1958 quando ne diventerà il primo direttore musicale nato negli U.S.A. Per avere un’idea del prestigio del titolo, basti pensare che l’incarico era stato in precedenza occupato da direttori europei del calibro di Gustav Mahler e Arturo Toscanini.
Il 1958 è anche l’anno del primo della fortunatissima serie dei Young People’s Concerts. Queste lezioni-concerto, andate in onda fino al 1972, furono pensate da Bernstein non solo per far conoscere tutto il fascino della musica ai giovani, ma anche per spiegare da dove derivi questa magia. Tra il sabato e la domenica, sintonizzandosi su CBS era possibile seguire Bernstein che, in compagnia della sua fedelissima orchestra, parlava alle scolaresche con estrema semplicità di ‘parolacce musicali’ quali orchestrazione, forma sonata o modalità.
La sua vocazione per la didattica poté esprimersi anche a livelli più elevati quando nell’autunno del 1973 tenne presso la sua Harvard un ciclo di sei lezioni dal titolo The Unanswered Question. Con il solito tono basso e pacato, il suo parlare facile da comprendere per tutti e le immancabili pose sullo sgabello del pianoforte, Bernstein abbatte le barriere tra le discipline e parla di musica servendosi di poesia, estetica e linguistica. Quest’ultima gioca un ruolo del tutto particolare in quanto la stessa musica viene a essere interpretata alla luce dello strutturalismo di Noam Chomsky. Si può parlare dei suoni come si parla di grammatica? Se è possibile una scienza come la grammatica generativa, è possibile andare alla ricerca dei suoni o delle melodie primordiali che accomunano tutte le popolazioni della terra? Da dove viene, insomma, la musica? E dove è diretta? Questa la ‘domanda senza risposta’.
Il buon Leonard fu anche un eccelso compositore. Tra le opere più importanti si ricordano ben tre sinfonie, quattro opere e diversi balletti. Il suo lavoro più famoso, però, resta il musical West Side Story, scritto con Arthur Laurents nel 1957. La storia è una riproposizione di Romeo e Giulietta in chiave ‘metropoli del XX secolo’, con la differenza che i due giovani innamorati devono affrontare tutte le difficoltà derivanti dalla loro appartenenza a razze diverse: americano lui, portoricana lei. Bernstein riesce con la sua musica a creare un intero mondo in cui il jazz (ormai nelle mani dei bianchi) incontra e si scontra con i travolgenti ritmi latini del mambo e del paso doble. Il successo di questo capolavoro ha ispirato un gran numero di band, musical e serie TV (si pensi all’episodio La prima volta di Glee).
Per cercare di dare una risposta alla domanda posta all’inizio, si potrebbe dire che il vero segreto della grandezza di Leonard Bernstein fu il suo ineguagliabile ecclettismo. Pianista, direttore, compositore e didatta. Imperfetto in tutto quello che faceva, proprio come il suo ciuffo, ma quanto basta per consegnarlo alla storia come un titano della musica. Un titano radical chic.
[articolo comparso sull’ormai perduto Quellidelledomande.it]
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