Yahaya Sharif-Aminu (22 anni) è in prigione nello Stato di Kano, Nigeria settentrionale, e da un momento all’altro potrebbe morire per impiccagione. L’accusa? Aver diffuso attraverso WhatsApp una canzone blasfema. Forse è il caso di ripeterlo: un ragazzo nigeriano è stato condannato a morte per la sua musica. L’arresto risale già all’anno scorso, ma in queste ore pare che diversi personaggi influenti di Kano – dei kani? – stiano facendo pressione affinché la condanna sia infine eseguita. Contemporaneamente in Italia l’assessora veneta Elena Donazzan viene duramente criticata e invitata a dimettersi per aver intonato Faccetta nera alla Zanzara. Stiamo davvero parlando di due fatti così diversi tra loro?
Sì, se consideriamo che l’assessora italiana non verrà mai condannata al cappio – anche se l’inveire di Parenzo può diventare talvolta alquanto soffocante. Nel nostro paese la legge n. 645/1952 sanziona la costituzione di gruppi con le caratteristiche del partito fascista e condanna l’apologia delle sue idee, ma non sembra esprimersi in modo esplicito sull’intonazione dei canti del ventennio. In Italia la Donazzan non può e non deve essere condannata a morte. In Nigeria per Yahaya, invece, queste potrebbero essere le sue ultime ore di vita.
No, se dall’altra parte operiamo una sofisticata ‘decontestualizzazione con le pinze’ e consideriamo i due eventi in maniera ab-soluta, separando l’azione dalle sue conseguenze da corte d’appello. In questo modo ci accorgiamo di come la marcetta di Renato Micheli e Mario Ruccione sia blasfema in Italia tanto quanto la canzone di Yahaya lo è in Nigeria. Il tribunale che opera in questi casi è quello dell’opinione pubblica, il quale, condizionato dal background culturale del popolo di riferimento, ha il potere di gravare in modo molto significativo sulle vite dei cittadini.
Stiamo davvero parlando ‘soltanto’ di musica?
In effetti davanti a eventi come questi viene da chiedersi se sia possibile attribuire una qualche colpa a un mucchio di suoni organizzati. Ho cercato in giro e pare non sia possibile ascoltare il brano di Yahaya – cosa che avrei fatto con molto interesse, ma comunque dubito possa essere una canzone dalla chissà quale portata rivoluzionaria per le sorti della storia della musica. D’altronde i suoni possono essere considerati come ‘belli o brutti’, ‘dolci o fastidiosi’, ma ‘giusti o sbagliati’ no. Quello credo proprio di no.
Il problema sta tutto nei valori che la musica rappresenta o, meglio, che noi scegliamo di rappresentare attraverso essa. Sin da Platone siamo stati abituati ad attribuire significati specifici alle melodie e, alla luce di questi, abbiamo deciso di accettarle o meno nella vita di tutti i giorni. Nel Medioevo si temeva il tritono o «diabolus in musica»; nel Settecento il coin du roi disprezzava pubblicamente il melodramma italiano; nel 1936 un articolo del Pravda condannava la Lady Macbeth di Shostakovich; etc. Come i casi di Yahaya e Donazzan ci insegnano, ancora oggi la musica continua a farsi portavoce di valori. I suoni di per sé non hanno colpa. Se proprio la si vuole trovare bisogna guardare nella mente – non negli orecchi – di chi la giudica.
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