In questi giorni sto partecipando a delle bellissime discussioni sullo stato della musica “classica” (o, meglio, “accademica”) oggi. La crisi dello spettacolo sembra essere percepita più o meno all’unanimità, vuoi per la domanda sempre più rarefatta che già prima della pandemia aveva costretto diverse orchestre a chiudere i battenti, vuoi per l’offerta i cui contenuti sembrano essere sempre meno al passo coi tempi, vuoi infine per chi in quella offerta ci lavora ed è invaso in questi giorni da un’irrefrenabile voglia di chiudere lo strumento nella custodia e prendere in mano i forconi – o la tastiera del computer.
So che molta gente ha organizzato incontri su Zoom per fare il punto della situazione e per stendere un elenco di richieste di assistenza da sottoporre all’attenzione dei palazzi del potere. È senza dubbio necessario cercare di trovare compromessi che aiutino tutti a superare questo momento di difficoltà, ma ho sempre di più l’impressione che questo non basti, che ci sia bisogno di altro. Credo che, una volta medicate le ferite, dovremmo cambiare completamente stile di vita per cercare di non ammalarci più. Mi spiego meglio.
La musica accademica nei decenni è riuscita sempre più a separarsi dallo scorrere del tempo diventando qualcosa di sacro, lontano. Un lungo processo di idealizzazione ha fatto in modo che si perdesse di vista, quasi dimenticandolo, un elemento fondamentale che fino a qualche secolo fa era di primaria importanza: il pubblico. Abbiamo reso passivi i nostri interlocutori, abbiamo parlato una lingua che si usa sempre meno e ci siamo dimenticati, infine, di aver bisogno di un ascoltatore per quel tanto sbandierato “linguaggio universale”.
Siamo ancora in tempo per curare questa malattia?
La medicina deve essere messa a punto dai compositori. Smettiamola di lodare Beethoven e Verdi per poi buttarci a capofitto nella ricerca di una forma suprema di rumoristica strumentale fine a se stessa. La loro musica era scritta per gli uomini del loro tempo e per i rispettivi ideali (fratellanza universale, unità nazionale, etc.). Le nostre partiture, invece, non interessano nemmeno ai familiari più stretti. Abbiamo bisogno di porci la questione dell’ascoltatore: cosa gli piace? cosa è disposto ad ascoltare? quali sono i suoi valori? La vecchia avanguardia ha fatto il suo corso. Quella nuova smette di cercare il senso della musica dentro di sé e guarda fuori, verso chi questo senso lo deve accogliere.
Un altro modo per tentare di rafforzare il rapporto col pubblico consiste nel cambiare la modalità di fruizione della musica. La separazione palco-platea – con i vari problemi acustici che porta con sé – ha rafforzato la distanza tra performers e spettatori, facendo quasi diventare i secondi elementi passivi dello spettacolo (penso di scrivere un articolo ad hoc sull’argomento della passività). Milano Classica, invece, con grande spirito di innovazione ha ben pensato di proporre i suoi concerti in una Palazzina Liberty illuminata di viola facendo accomodare il pubblico intorno ai musicisti e servendo loro cocktails fatti a regola d’arte. Questa modalità fresca di organizzare i concerti sembra funzionare, e anche bene – dopotutto, siamo onesti, chi non vorrebbe ascoltare il Quartetto per archi di Ravel sorseggiando un gin tonic?
Trovo molto stimolante il fatto che questo punto coronato su di una grande pausa nella partitura dello spettacolo sia diventato, tra le altre cose, anche un momento di riflessione sul futuro della musica e della sua modalità di fruizione. La questione del pubblico sarà un tema cruciale negli anni a venire: se la musica accademica vorrà essere ascoltata dovrà imparare una volta per tutte a prendersi cura dei suoi ascoltatori.
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