Oltre il danno anche la beffa. Il danno è che i teatri siano chiusi e che un numero esorbitante di lavoratori dello spettacolo siano senza lavoro da mesi. La beffa è che dal 2 al 6 marzo si farà Sanremo con un pubblico scannerizzato di 500 persone e che i lavoratori dello spettacolo di cui sopra saranno costretti a casa a guardare il loro canone finanziare il tutto. Parliamo di cifre da capogiro che non si riducono soltanto ai cachet dei conduttori o dei co-conduttori di turno, ma che vanno a ricoprire anche le spese degli ospiti, della messa in scena e di tutto il processo di attuazione delle precauzioni mediche che permetteranno la “legalità” del festival.
Adesso, permettetemi un coming out: ho guardato Sanremo negli anni passati e tuttora apprezzo particolarmente il ruolo che ha svolto nella recente storia della musica pop italiana. Il problema è che se l’appuntamento più importante dell’intrattenimento musicale deve diventare il momento più alto dell’umiliazione dei lavoratori dello spettacolo, allora non ci sto. Lo dico fermamente – anche se ci saranno concorrenti in gara che seguo da tempo come La Rappresentante di Lista o Willie Peyote: non guardare il festival quest’anno è il minimo che si possa fare.
Online è già possibile trovare la solita petizione di Change.org – sito che tra le altre cose serve principalmente a fare in modo che le persone adirate per qualsivoglia motivo si sentano meno sole. In particolare, questa promuove il finanziamento nelle città di iniziative teatrali parallele e alternative al festival, che in qualche modo possano boicottare una potenziale fetta del pubblico televisivo. Anche Giovanni Sollima si è espresso sull’argomento, invitando musicisti, orchestre e cori tutti a occupare Sanremo nei giorni del festival e a fare musica prendendo tutte le dovute precauzioni antivirus necessarie. Ciò che sta alla base di queste e altre iniziative è un’idea costruttiva. Evitare di accendere la televisione non basta: c’è bisogno di fare qualcosa.
Un Sanremo necessario?
Cosimo Carovani va dritto al cuore della questione. Secondo lui il «gioco perverso e tacito» che soggiace a tutto ciò consiste in un cambiamento «del valore fondamentale dell’arte da umanistico a economico». Perché è proprio di questo che si tratta: Sanremo da simbolo dell’unione popolare tra arte e intrattenimento si è ristretto al solo intrattenimento fine a se stesso – o meglio, fine al portafogli del conduttore. Il problema di fondo, però, è che se alla coppia panem et circenses viene meno il panem, la folla comincia ad avere fame.
Il commento più forte a mio avviso lo propone Francesca Petretto nel suo blog sul Fatto Quotidiano. Secondo lei questo succede – cito: «perché Sanremo è Sanremo e voi non siete un cazzo». Vero, ma dobbiamo anche renderci conto che in qualche modo siamo la causa della stessa esistenza del festival. Il sogno di quelle cifre distribuite per le città del Bel Paese a finanziare un “Sanremo diffuso” che desse un barlume di soddisfazione lavorativa a chi un tempo abitava l’arte sembra un desiderio di felicità – sicuramente migliore di quello che han fatto cantare a Mina.
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