Da più di un anno a questa parte abbiamo a che fare quasi ogni giorno con dati. Ci siamo ritrovati a seguire curve e indici come fossimo brokers finanziari o ad attendere il bollettino giornaliero delle 18:00 sperando in numeri rassicuranti. Magari dopo aver visto The Social Dilemma (2020) di Jeff Orlowski abbiamo tentato – invano – di salvaguardare le informazioni personali che consegniamo like dopo like ai nostri profili digitali, oppure siamo diventati esperti di vaccini e ne conosciamo le percentuali di efficacia per ogni azienda farmaceutica. Ma cos’è un dato?
Ho cercato tra i vari vocabolari e ammetto di essermi innamorato della definizione quasi “cartesiana” che ne dà il Treccani: «ciò che è immediatamente presente alla conoscenza prima di ogni forma di elaborazione». Un dato, quindi, è ciò che semplicemente è: ciò che ci viene dato a prescindere. Esso può essere sì frutto di una ricerca, di un calcolo o un’indagine – così come ne può essere l’origine -, ma non è conoscenza in senso stretto. Per poter conoscere qualcosa è necessario elaborare i dati, metterli in relazione tra loro, interpretarli.
In filologia, poi anche in filosofia, la disciplina che si occupa dell’interpretazione è l’ermeneutica. Essa nasce come espediente tecnico per la comprensione e la spiegazione dei testi biblici, ma negli ultimi secoli si è sempre di più focalizzata sullo studio delle caratteristiche costituenti lo stesso processo interpretativo. Uno dei primi a lavorare in questa direzione è stato Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768 – 1843). Il teologo – che con un nome del genere oggi avrebbe messo da parte i testi sacri per tentare una carriera da pilota in F1 – ha parlato dell’ermeneutica come Subtilitas Intelligendi, ovvero di arte o tecnica del comprendere all’interno della quale è contenuta anche la Explicandi.
Comprendere i dati
Detto altrimenti, per spiegare un dato è necessario prima comprenderlo e com-prenderlo significa considerare il singolo elemento come parte del tutto, «prenderlo con il resto». Schleiermacher passava probabilmente le sue giornate studiando la Bibbia e lo scopo delle sue ricerche non era tanto imbastire un’omelia su qualche salmo o profezia – cosa che faceva, comunque, con estremo rigore -, quanto sciogliere le contraddizioni presenti nel testo per avere una “Parola di Dio” coerente in ogni sua parte. Per lui l’ermeneutica si fondava sulla «non comprensione del discorso»: il fraintendimento non è da evitare, ma da ricercare in quanto punto di partenza per la comprensione di un senso supremo.
Ma torniamo ai nostri bollettini. Quello che voglio cercare di far passare è che un dato, preso così senza esser messo in relazione con altri, significa ben poco. Considerato assolutamente e senza un’interpretazione, significa nulla. Prendiamo per esempio quel famoso 0,034% di morti nel mondo a causa del virus dei nostri giorni. Visto di per sé è un dato come tanti altri, ma in base all’interpretazione che se ne dà può divenire il primo tassello di una teoria complottista o di un pensiero negazionista, oppure può allarmare l’OMS al punto tale da costringerla a dichiarare l’esistenza di una pandemia globale.
Non sono quindi i dati che dovremmo temere, ma le loro interpretazioni. Di quelle sì che possiamo, in alcuni casi, avere paura.
L’immagine è di Maria Pia Prete
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