Numerosi sono stati gli intellettuali che hanno proposto riflessioni e approfondimenti sul rapporto tra musica e le varie forme di potere. Un rapporto che tra le altre cose ha permesso all’una di trovare accoglienza e protezione nell’altro e all’altro di veicolare immagini e valori grazie all’una. La questione che vorrei proporvi è questa: esiste tra le due dimensioni uno spazio dove si intersecano? Un momento, anche storico, nel quale due mondi apparentemente distanti arrivano a coincidere? In altre parole, quando la musica diventa potere?
Per procedere in questa direzione dovremmo prima chiederci in che modo potrà mai manifestarsi in ambito musicale una forma di potere. Beninteso, non intendiamo qui «potere» nel senso di «potenza» o «potenzialità» – anche perché la musica dovrebbe combaciare perfettamente con questa definizione perlomeno nell’ambito dell’espressività. Prendiamo, invece, in considerazione quel significato coercitivo e vincolante della parola che la rende come «capacità di influire sul comportamento altrui».
Certo, una bagatella o un valzerino non potranno da soli condizionare massivamente il gusto di compositori e ascoltatori, ma uno stile sì. Soprattutto se questo stile viene ingigantito e decorato verbalmente da un lavoro sistematico di assolutizzazione e mistificazione. La domanda dell’inizio diventa ora questa: uno stile musicale può divenire dominante? Può un gruppo circoscritto di autori e opere condizionare il gusto e l’orecchio – e mettiamoci anche la vista – del pubblico per più di duecento anni?
Il potere di uno stile
La risposta è sotto gli occhi di tutti: sì! La “musica classica” – metterei più virgolette ma sarebbe poco elegante – esercita ancora oggi un dominio quasi assoluto su un certo tipo di estetica. Se questa sopravvive è in parte merito dello sforzo di teatri e fondazioni varie nel riproporre anno per anno un repertorio immutato e apparentemente immutabile. Lydia Goehr ne fa un’analisi lucidissima ne Il museo immaginario delle opere musicali (1992). Sia chiaro: non si vuole qui minimamente mettere in dubbio la grandezza di questi capolavori. Bisogna però notare come gli stessi siano stati sacralizzati da una certa musicologia che in un momento storico ben preciso ha preteso di decidere cosa consegnare ai posteri e cosa no.
Una musicologia di parte, mitteleuropea, figlia dell’imbarazzante silenzio dopo gli ultimi accordi della Sinfonia n. 9 di Ludwig van Beethoven e di un certo risentimento nei confronti di Rossini. Autori come E. T. A. Hoffmann, Hanslick e lo stesso Wagner hanno contribuito a risolvere il grande problema dell’Universalità ambita dal compositore di Bonn ricorrendo a un “semplice” assolutismo. Ed è proprio questo iato incolmabile quanto artificiale tra assoluto e relativo, tra puro e sporco, tra sacro e profano ad aver condizionato il pensiero musicale fino a qualche giorno fa. Lo stesso Dahlhaus davanti alla musica popolare, quindi non-assoluta, ha storto il naso (penso di approfondire il discorso sulla musica assoluta in un articolo a parte).
Una forma di potere in ambito musicale esiste. Si tratta di un potere instaurato come molti altri grazie a una ideologia secessionista, rivolta sempre più verso un iperuranio fatto di suoni ascoltabili soltanto con le orecchie della mente.
Verso una nuova musicologia
Per questo credo che ci sia bisogno di una nuova musicologia, definita come una disciplina rivolta allo smascheramento dei meccanismi di mistificazione dei generi musicali “dominanti”. In questa direzione sembra muoversi oggi la new musicology americana, una corrente di pensiero che relativizza e materializza il discorso sulla musica grazie a contributi provenienti dall’etnomusicologia e dal neocomparativismo storiografico. C’è chi è arrivato a pensare che dopo Beethoven non fosse più possibile comporre musica e chi continua a credere che «oramai è stato scritto tutto». Bene, dunque, siamo arrivati sulla cima del monte. Adesso dobbiamo scendere a valle e la vista sarà stupenda.
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