Il 27 marzo scorso una notizia apparsa sul Telegraph per la firma di Craig Simpson ha messo in allarme l’intero panorama musicale. In molti hanno condiviso e ricondiviso l’articolo sui social – sia nella sua versione originale, sia nelle traduzioni copia-incolla fatte da alcune testate giornalistiche italiane – in tandem con un commento apocalittico sull’imminente futuro oscuro della musica. Di cosa si tratta? Ecco, sembrerebbe che l’Università di Oxford sia intenzionata ad abolire Mozart e Beethoven dai suoi corsi musicali. Uso il condizionale perché le cose, in realtà, non stanno proprio così e la questione è ben più complicata di quanto possa apparire. Davvero Oxford vorrebbe voltare le spalle allo stesso compositore per il quale, a 250 anni dalla scomparsa, ha realizzato uno dei Festival musicali più importanti del 2020?
Per prima cosa è importante capire che il problema non è in Beethoven o in Mozart. Si tratta, infatti, di un discorso più ampio che si basa non tanto sulla repressione di un genere come quello della musica “colta”, quanto sulla rivalutazione di tutti gli altri stili che nei secoli non hanno goduto della stessa fortuna. Ad essere contestata è una certa musicologia eurocentrica, così focalizzata su quanto avviene in casa propria da diventare miope nei confronti di tutto ciò che le accade intorno. D’altronde fa riflettere come una critica del genere provenga proprio da chi con l’Europa sembra volerci avere sempre meno a che fare.
Eurocentrismo e Music Theory
Questo eurocentrismo musicale porta con sé l’aggravante della questione sociale. Così la musica colta viene condotta al tavolo degli imputati con l’accusa di essere “bianca”, nonché figlia di una mentalità razzista e colonialista. Il reato? La musical notation, ossia la creazione nei secoli di un sistema di scrittura che ha permesso di incastrare i suoni all’interno delle sue proprie regole e di considerare «barbaro» tutto il resto. Per dirla diversamente, a coloro che pensano che non si possa più scrivere musica nuova perché è stato già scritto tutto, i professori di Oxford risponderebbero che il problema sta proprio nel fatto che tutto è stato scritto. Da qui la pesante sentenza della loro Università. Un verdetto che in molti hanno già affiancato all’ostracismo della recente cancel culture, che ha abbattuto o deturpato statue come quella di Indro Montanelli a Milano.
Vale la pena notare che le idee alla base di questa Brexit musicale non nascano oltremanica ma arrivino, in realtà, dall’altra parte dell’Atlantico. Già da qualche anno, infatti, i dipartimenti di studi musicali delle università americane hanno il dito puntato contro la Music Theory, un concetto che raccoglie in sé musica e musicologia occidentali, europee, del «lungo diciannovesimo secolo», bianche, colonialiste, schiaviste e quant’altro. Per esempio, Philip Ewell (Hunter College di New York) ha parlato della White Racial Frame come di quella teoria strutturata e istituzionalizzata che ha chiuso le porte delle accademie a tutta la musica non “bianca”, estendendo il divieto anche alle persone. Susan McClary ed Elly Hisama hanno fatto rientrare nel discorso la questione sessuale e hanno parlato di musica, genere e sessualità da una prospettiva femminista. Anche sul web il bassista-youtuber Adam Neely ha trattato l’argomento in un video da più di un milione di visualizzazioni.
Contraddizioni e compromessi
Tra i cronisti c’è stato chi ha ricondotto l’origine della critica all’accademismo bianco al caso di George Floyd e ai movimenti #blacklivesmatter e #metoo, ma ci si potrebbe sbizzarrire a ritrovare momenti importanti di questa lotta fra culture ancora più indietro nel tempo. Penso a Kendrick Lamar che vince il Premio Pulitzer nel 2018, a Barak Obama presidente degli Stati Uniti nel 2009, al rap di fine millennio, agli anni ’60 con le cinture di Muhammad Ali, i discorsi di Martin Luther King e il free jazz di John Coltrane, e così via. A mio avviso il problema non è tanto collocare sulla linea del tempo l’origine di questo fenomeno, quanto capire la sua direzione e le contraddizioni che è possibile trovare negli obiettivi che si pone. Non vi sembra un po’ curioso che la critica nei confronti dell’accademismo senta il bisogno di diventare a sua volta accademia? Che per combattere la Music Theory eurocentrica tutta la musica del resto del mondo debba organizzarsi anch’essa in una teoria? Detto con altre parole, la musica per acquisire importanza deve necessariamente diventare musico-logia?
Questa la vera domanda che sta alla base della questione. La decisione presa dall’Università di Oxford di rendere facoltativi per i suoi studenti Mozart e Beethoven – non di abolirli! – e di aprire le aule a corsi più “interculturali” viaggia sui binari del compromesso. Si cerca di rendere meno accademico quello che lo è già e più accademico ciò che non lo è ancora. Per rispondere a coloro che commentavano apocalitticamente sull’imminente futuro oscuro della musica: non temete. Mozart e Beethoven sono ancora lì. Non li tocca nessuno. Penso che mai come oggi appaia urgente chiedersi se il valore che solitamente diamo alla musica dipenda dai suoni oppure da quanto su quei suoni sia stato scritto, raccontato ed esaltato negli ultimi duecento anni. La risposta a questa domanda, però, non cercatela nei libri.
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