Devo confessarvi che mi ritrovo a seguire le vicende che riguardano la cancel culture nelle facoltà inglesi di musicologia con un interesse superiore a quello che riservo per le serie tv! Solo qualche mese fa l’Università di Oxford annunciava la sua volontà di rendere facoltativi Mozart e Beethoven per i suoi studenti, in modo tale da indirizzarli verso curricula più interculturali e meno legati alla “solita vecchia musica figlia dell’imperialismo”. Oggi un bellissimo articolo comparso su The Spectator per la firma di Ian Pace riporta il titolo How the culture wars are killing Western classical music. Cosa sta succedendo? E cosa c’entra la cancel culture?
Il caso J. P. E. Harper-Scott
Londra. Estate 2021. Il professor J. P. E Harper-Scott attraversa i giardini della Royal Holloway, University of London, il campus più bello di tutto il Regno Unito. Nella mano stringe una lettera, quella delle sue dimissioni. Il motivo? Bene, stando a quanto lo stesso professore riporta in Why I left academia, l’Università britannica avrebbe perso di vista il carattere critico della conoscenza per arrendersi sempre più al dogmatismo. Nello specifico, Harper-Scott prende in considerazione questa asserzione:
Le opere musicali del diciannovesimo secolo erano i prodotti di una società imperialista. Il canone della musica classica deve essere decolonizzato.
Le due frasi, che costituiscono il principio fondamentale della cancel culture musicale, non lasciano spazio ad alcun tipo di obiezione. In particolare, la seconda si impone come un dogma invalicabile, come un catoniano «Carthago delenda est» o un prodigioso «Invaders must die». L’esito ultimo di questo pensiero sarebbe la fine dell’insegnamento accademico di Mozart e Beethoven, nella convinzione che «vi possano essere miglioramenti delle condizioni economiche, sociali, sessuali, religiose o razziali nelle vite dei meno privilegiati».
Il pensiero critico
Dall’altra parte, invece, vi è un pensiero critico che, secondo Harper Scott, è capace di distinguere l’opera musicale come figlia del suo tempo dall’opera musicale in sé. Un brano sarebbe allo stesso tempo parte di un momento storico ben preciso e individuabile, ma anche quiddità a sé stante, opera assoluta, sciolta dal tempo. La critica musicale avrebbe quindi il compito di guardare al suo oggetto quale il prodotto di una creatività e di un’ingenuità tipicamente umane.
È solo attraverso un pensiero critico che è possibile continuare a studiare Mozart e Beethoven – magari accanto a- e non al posto di- canti di protesta vietnamiti o marinere peruviana. Detto altrimenti, a una cultura dell’oblio bisogna opporre una cultura critica. Un pensiero che non guardi alla musica del «lungo diciannovesimo secolo» come un qualcosa da decolonizzare, bensì come un insieme di opere la cui identità va preservata, nonostante il tempo, nonostante la storia.
To be continued…
Le appassionanti vicende legate agli effetti della cancel culture sulle facoltà di musicologia inglesi sembrano non finire qui. C’è sicuramente da notare come se da un lato tutta questa storia sembra aver messo in qualche modo in crisi l’educazione musicale d’oltremanica, dall’altro si è venuto a creare a livello internazionale un terreno parecchio fertile per il dibattito musicologico.
La questione della cancel culture, infatti, ha costretto una buona fetta di musicologi a mettere da parte l’edizione critica dell’opera che verrà eseguita dopodomani e mai più, per tornare a nutrire la propria nottola di Minerva. In Italia, però, tutto questo sembra passare inosservato. Qui si fa silenzio per non disturbare il lavoro dei filologi.
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