Mi è stato regalato per l’n-esimo compleanno il Codex Seraphinianus di Luigi Serafini (n. 1949). Si tratta di libro dalle notevoli dimensioni pieno di illustrazioni astratte e di testi scritti in un alfabeto sconosciuto. Scorrendo le pagine si rimane affascinati dalle metamorfosi delle immagini al limite dell’assurdo e si cerca di trovarne un senso nelle incomprensibili parole che le affiancano. Ma cosa significa il Codex Seraphinianus e, soprattutto, ha davvero senso porsi questa domanda?
Sin dalla sua prima edizione del 1981 curata da Franco Maria Ricci, il Codex ha catturato l’attenzione di numerosi personaggi dell’arte e della letteratura – ce n’è un elenco parziale su Wikipedia – e le pagine web che ne parlano sono decisamente più di quelle dello stesso libro. Italo Calvino ne ha scritto un saggio e su YouTube è possibile trovare tra le altre cose il solito video in stile Vox con musichetta carefree dal pizzicato incuriosito e un’intervista all’autore di due domande.
Volevo provare qui a disturbare due grandi linguisti e filosofi del secolo scorso per cercare di approfondire il mistero di quella che lo stesso Serafini definisce «un’enciclopedia di un mondo immaginario». Il primo è Ferdinand de Saussure, che nel Cours de linguistique générale (1916) pone le basi per una linguistica strutturalista. Se si cerca di applicare al Codex la celebre triade significato-significante-referente, si nota subito come tanto nelle illustrazioni quanto nei testi manchi il terzo elemento. Non è possibile, infatti, associare il contenuto a un elemento reale (un referente appunto). Inoltre, anche quando si osserva qualcosa di riconoscibile il processo all’interno del quale esso viene inserito ci porta a non riconoscerlo più. Un esempio per tutti è la sedia che sembra crescere come una pianta bella e fatta dal terreno.
Guardando al testo assistiamo al venir meno anche del significato, in quanto realizzato in un «alfabeto asemico». Ci si ritrova così davanti a un vicolo cieco con null’altro in mano se non il significante, o meglio il segno grafico e iconografico – ma prima di tutto artistico – che in qualche modo ci osserva e pretende di essere compreso. Qui entra in gioco il secondo scomodato del caso, ossia Charles Sanders Peirce. Anche a lui piacevano le triadi, ma la sua è leggermente diversa rispetto a quella di Saussure: oggetto-segno-interpretante. Peirce ritiene fondamentale il ruolo del soggetto, ovvero di quella parte della sua mente dedicata all’interpretazione dei segni. Un’area mai stabile e sovente soggetta a cambiamenti. Il filosofo ammette che lo stesso segno può essere interpretato in due modi diversi da due soggetti distinti e che anche il medesimo soggetto possa cambiare la sua interpretazione di un segno da un giorno all’altro.
Cerchiamo adesso di rispondere alle domande dell’inizio. Cosa significa il Codex Seraphinianus? Assolutamente nulla. Ha davvero senso porsi questa domanda? Assolutamente sì. Perché è proprio nel tentativo di trovare una risposta che ciascuno di noi dà un senso, il proprio personalissimo significato, a quello che scrive o disegna Serafini. “Leggere” il Codex è quasi un atto di auto-psicanalisi. Magari oggi ci renderemo conto che è effettivamente possibile al livello mentale che una sedia germogli dalla terra. Magari domani no.
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